Scopo di questo intervento è di ipotizzare gli scenari migratori futuri in Italia, i principali fattori che li influenzeranno e le implicazioni che ne deriveranno. Il fattore demografico, di cui si sta acquisendo una crescente consapevolezza, è quello che influirà maggiormente, e le sue ragioni sono difficilmente contestabili. Partendo dalle previsioni demografiche, si apprende che l’immigrazione è chiamata ad assicurare un apporto positivo indispensabile e che questo attualmente non rappresenta dunque un “attentato” al nostro futuro.
Previsioni demografiche
Nel 2000 le Nazioni Unite hanno curato previsioni demografiche a medio e a lungo termine, sia su scala mondiale che disaggregate per singoli Paesi, aggiornate poi ogni due anni (Department of Economic and Social Affairs Population Division, Word Population Ageing 1950-2050, www.un.org). Dal rapporto Onu è emerso che nel mondo il processo di invecchiamento in atto è senza precedenti nella storia dell’umanità (passaggio dell’età media da 26,4 anni a 36,8 anni nel 2050). Nel 2050, per la prima volta nella storia, il numero di anziani previsto nel mondo sarà superiore al numero di giovani (con incidenze percentuali, rispettivamente, del 20,1% e del 21,4%). Nei Paesi a sviluppo avanzato la popolazione con più di 60 anni, che già nel 2000 ha superato un quinto di quella totale (rispetto all’8% riscontrabile nei Paesi poveri), avrà l’incidenza di un terzo. In particolare l’Unione Europea nel secolo XXI conoscerà una diminuzione della sua popolazione.
Preso lo spunto da questo studio, per l’Italia è preferibile riferirsi alle previsioni curate dall’Istat per il periodo 2011-2065 (Istat, Il futuro demografico del Paese: previsioni regionali della popolazione residente al 2065), che tengono conto degli importanti sviluppi intervenuti nel settore migratorio nel corso del primo decennio del nuovo secolo e dell’apporto assicurato dagli immigrati alle dinamiche demografiche nazionali. Anche in queste nuove previsioni l’apporto degli immigrati in provenienza dall’estero viene ritenuta fondamentale, seppure quantificato secondo tre diverse ipotesi: 150mila nello scenario basso, 200mila in quello medio e 240mila in quello alto.
Nel periodo 2011-2065, nello scenario medio ipotizzato dall’Istat la dinamica naturale sarà negativa per 11,5 milioni (28,5 milioni di nascite contro 40 milioni di decessi) e quella migratoria sarà positiva per 12 milioni (17,9 milioni di ingressi contro 5,9 milioni di uscite), con un margine d’incertezza finale, tutto sommato contenuto, che varia di 1,5 milioni (in più nell’ipotesi alta e in meno in quella bassa), per cui l’intervallo di previsione per le entrate si colloca tra i 16,7 e i 19,3 milioni e, per le uscite, tra i 5 e i 7 milioni.
Le previsioni indicano una sostanziale incertezza soprattutto per quanto riguarda la futura consistenza delle nascite (tra 24,4 milioni e 32,6 milioni), con la conseguenza che il saldo naturale potrebbe oscillare tra -5,8 e -17,3 milioni. Alle coppie straniere sono riferite 7,5 milioni di nascite in tutto l’arco di previsione (con una forbice tra 6,4 milioni e 8,6 milioni), mentre al suo interno l’ammontare dei decessi risulterebbe di 2,3 milioni (con un intervallo compreso tra 2,1 e 2,5 milioni).
Nello scenario centrale si ipotizza un livello iniziale di migrazioni nette con l’estero superiore alle 300mila unità annue, per discendere rapidamente sotto le 250mila unità annue dopo il 2020, pervenendo ad un livello di 175mila unità annue nel 2065. L’andamento discendente è previsto anche nelle altre due ipotesi, ma il valore finale nel 2065 sarà ben diverso: 113mila unità aggiuntive nell’ipotesi bassa e 238mila nell’ipotesi alta.
Nel corso dell’intero periodo di previsione potrebbero acquisire la cittadinanza italiana, senza più essere conteggiati come popolazione straniera, 7,6 milioni di persone (5,6 milioni nello scenario basso e 9,8 in quello alto).
Nel 2065 la popolazione residente in Italia sarà pari a 61,3 milioni (53,4 milioni nello scenario basso e 69,1 milioni nello scenario alto), ma il Mezzogiorno conoscerà indubbiamente una diminuzione. Questa sarà la distribuzione territoriale della popolazione straniera ipotizzata al termine del periodo: Nord Ovest (5,1 milioni di stranieri e 36% del totale), Nord Est e Centro (26% ciascuno, con oltre 3,5 milioni di residenti), Sud e Isole (rispettivamente, 9% e 4% con 1,2 e 0,5 milioni di residenti). Nelle Regioni del Centro-Nord l’incidenza dei cittadini stranieri supererebbe il raddoppio (arrivando al 26-27%, con la punta del 29% nel Nord-Ovest).
Riassumendo, tra il 2011 e il 2065 nello scenario centrale interverranno queste variazioni:
1) l’età media salirà da 43,5 anni a 49,7 anni. Questo valore indica presumibilmente la conclusione del processo di transizione demografica in Italia, dove senz’altro la popolazione sarà più vecchia di quella attuale ma non priva di una certa possibilità di rinnovamento: i giovani fino a 14 anni risulteranno, infatti, pari a 7,8 milioni entro il 2065 (con una forbice tra i 5,9 e i 9,7 milioni);
2) gli ultra 65enni dal 20,3% al 32-33%, toccando i 20 milioni (con un intervallo tra i 17,7 e un valore assoluto di 22,3 milioni);
3) i minori fino a 14 anni scenderanno dal 14% al 12,7% (un intervallo tra l’11% e il 14%);
4) la popolazione in età lavorativa di 15-64 anni dal 65,7% al 54,5% (con un intervallo compreso tra il 53,8% ed il 55,8%), attestandosi sui 33,5 milioni (con un intervallo tra i 29,8 e i 37,2 milioni);
5) l’indice di dipendenza degli anziani (rapporto tra popolazione di 65 anni e più e popolazione in età attiva 15-64 anni) crescerà dal 30,9% al 59,4% (valori simile in tutt’e tre gli scenari);
6) la popolazione residente straniera crescerà da 4,6 milioni a 14,1 milioni (con una forbice compresa tra i 12,6 ed i 15,5 milioni);
7) l’incidenza della popolazione straniera su quella totale salirà dal 7,5% a valori compresi tra il 22% e il 24%;
8) le migrazioni interregionali coinvolgeranno fino a 17,1 milioni d’individui nel corso di tutto il periodo, con una media di oltre 300mila trasferimenti annui.
Una riflessione equilibrata
Attuando un collegamento tra le previsioni demografiche e la situazione presente, bisogna sottolineare che l’aumento di profughi verificatisi a partire dalle “primavere arabe” del 2011, con la punta di 170mila unità nel 2014 (quasi certamente destinata a essere superata), non sconvolge il calcolo degli ingressi prefigurato dall’Istat: infatti, nello scenario centrale (ritenuto più plausibile) è stato ipotizzato un livello iniziale di migrazioni nette con l’estero superiore alle 300mila unità annue, destinato poi a scendere sotto le 250mila unità dopo il 2020, per poi assestarsi attorno alle 175mila unità.
È vero però che la riflessione sulle migrazioni non può riguardare solo gli aspetti demografici e che è necessario farsi carico anche delle implicazioni occupazionali. In Italia, nel 2015, nonostante la lieve crescita economica, non è stato possibile ridurre nella misura auspicata l’alto livello di disoccupazione, che ha coinvolto circa 3 milioni di persone, di cui circa un sesto immigrati. Ciò costringe a parlare anche delle implicazioni socio-culturali, parimenti importanti, nelle politiche migratorie. In Italia, come negli altri Paesi europei, la popolazione è poco propensa ad accettare gli immigrati già insediati nei periodi di crisi e diventa molto chiusa di fronte ai nuovi arrivi di altri cittadini stranieri, siano essi venuti per lavoro o come richiedenti asilo. Un’integrazione più soddisfacente diventa così più difficile: si registrano difficoltà di convivenza interculturale tra autoctoni e immigrati di diverse culture e religioni (la percezione del terrorismo islamico ha contribuito a peggiorare la situazione); una ridotta partecipazione dei lungosoggiornanti nei vari ambiti della vita pubblica del Paese; un’insoddisfacente integrazione delle seconde generazioni (si attende ancora una legge che faciliti loro l’acquisizione della cittadinanza); infine, gli immigrati diventati cittadini (ormai prossimi al milione, a seguito dell’accresciuto ritmo delle naturalizzazioni), a differenza di quanto si riscontra in altri Paesi Ue, non hanno ancora acquisito una capacità di rappresentanza istituzionale e sociale tale da riuscire a esercitare un impatto adeguato per il miglioramento dell’attuale situazione.
Pertanto, la criticità della situazione oggi si determina non tanto perché il numero annuale di nuovi profughi è più elevato rispetto alle quote e al numero di regolarizzati registrati nella prima decade del 2000, quanto perché i flussi sono di tipo nuovo, solo in minima parte programmati, e vanno individuate e perseguite strategie di inserimento in grado di valorizzare la presenza dei nuovi venuti e il loro capitale umano.
Per rimediare alle carenze demografiche dell’Italia sarebbero state necessarie da tempo altre politiche di sostegno alle famiglie e alla natalità e, quand’anche queste venissero intraprese con decisione, sarebbe comunque necessario l’apporto di una certa quota di nuovi immigrati. A ciò si aggiungono i fattori di espulsione dai Paesi asiatici e dai Paesi africani, sia in ragione di una presenza eccessiva rispetto alle locali opportunità occupazionali sia in ragione di guerre, lotte civili, persecuzioni religiose e anche desertificazione. Dopo un’attenta lettura delle proiezioni demografiche dell’Istat appare del tutto velleitario sostenere che l’Italia può andare avanti per conto suo, senza l’aiuto dei flussi migratori in entrata. Altrettanto velleitario risulta essere il discorso di chi lega l’arresto della pressione migratoria all’attuazione di politiche migratorie improntate a un’estrema rigidità. Se si pensa che l’Africa, dalla popolazione attuale di 1 miliardo e 200 milioni persone supererà il raddoppio a metà secolo, le promesse di contenimento ed espulsione sono di natura miracolistica perché assolutamente distanti dalla realtà e dalle dinamiche in atto.
Che fare?
Riconoscere che la situazione è complicata e che le soluzioni sono difficili non significa arrendersi. Al contrario, abbandonati gli slogan, bisogna adoperarsi per individuare i margini di manovra per perseguire una migliore governabilità, sia attraverso le decisioni da adottare a livello europeo (una più equilibrata ripartizione dell’accoglienza della massa dei profughi in fuga), sia attraverso la stipula di accordi con i Paesi di origine o di passaggio degli immigrati, non limitandosi a proporre loro la funzione di gendarmi dei flussi, ma assicurando anche la disponibilità per sostenerne lo sviluppo. Il dibattito politico e gli eventi di questi ultimi tempi indicano quanto sia difficile muoversi sulla via della concreta fattibilità di questi auspici e ne è un chiaro esempio la Libia. Qui la pacificazione tra le varie fazioni in lotta e l’estirpazione del terrorismo potrebbero avere effetti quanto mai benefici sulle politiche migratorie nel Mediterraneo, e però il processo, fortemente voluto dall’Italia e dall’Onu (sono comunque diversi i Paesi a influire su quel contesto, anche con visioni contrastanti), stenta ad andare avanti.
Sono difficili, ma non impossibili, le decisioni interne all’Italia che possono “fluidificare” la politica migratoria. Nel primo trimestre del 2016 il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 12%. La concretezza richiede che si parli di sviluppo, di investimenti esteri, di fattori di sviluppo territoriale, di incremento dell’imprenditoria (gli immigrati imprenditori hanno mostrato che si può crescere anche in un periodo di crisi), di imprese impegnate su nuove tecnologie (ridimensionando così il flusso dei nostri laureati costretti a recarsi all’estero), di recupero di settori artigiani a rischio di abbandono, di misure di supporto alle aree (specie montane) a rischio di spopolamento, di aumento dell’export (anche con i Paesi di origine degli immigrati).
Si tratta di scenari realistici (ma nella loro portata saranno condizionati dalle decisioni politiche che verranno adottate) che potranno consentire il recupero dei disoccupati italiani e stranieri e creare altri sbocchi occupazionali, evidenziando così che l’Italia, nonostante l’immigrazione – e anzi grazie ad essa – non è un Paese destinato allo sfacelo.
A questo punto, però, può nascere spontanea l’obiezione: queste sono scelte che competono ai decisori pubblici. Le cose non stanno esattamente così, come il Centro Studi e Ricerche IDOS, nei numerosi eventi organizzati in tutta Italia per la presentazione del Dossier Statistico Immigrazione, si adopera per mettere in evidenza. I decisori pubblici sono la componente apicale di una realtà di base molto più ampia: essi hanno molti margini di autonomia, ma non potrebbero rappresentare a lungo opinioni del tutto divergenti da quelle sostenute dalla maggior parte della base. Questa riflessione è, nello stesso tempo, incoraggiante e mortificante. Mortificante perché, in campo migratorio, molti orientamenti restrittivi dei politici sono sostenuti dalla popolazione. Incoraggiante perché, cambiando alla base, cambierà anche la rappresentazione politica dell’immigrazione. Serve una maggiore conoscenza dei termini del fenomeno migratorio e dei dati sottostanti.
La politica di informazione è gestita non solo dai mass media, ma da ciascuno di noi, che per definizione è un comunicatore che può adoperarsi al riguardo, creando un humus culturale diverso che valga a contrastare gli atteggiamenti negativi “a prescindere” nei confronti degli immigrati e l’incapacità di leggere gli aspetti positivi: basterebbe pensare al sostegno dato dagli immigrati al nostro sistema pensionistico e al rafforzamento dei settori lavorativi deficitari, come quello dell’assistenza alle famiglie. Tra l’altro, questo grande fenomeno ci interessa anche come Paese esportatore di emigrati (sono quasi 5 milioni gli italiani residenti all’estero).
L’accoglienza degli immigrati, nel concreto, dipende da noi cittadini. E da noi dipenderà anche l’atteggiamento che avranno i decisori pubblici. Si risponderà così positivamente all’interrogativo del grande economista John Kenneth Galbraith, che si chiedeva: «Le migrazioni sono la più antica azione di contrasto alla povertà, selezionano coloro i quali desiderano maggiormente riscattarsi, sono utili per il Paese che li riceve, aiutano a rompere l’equilibrio di povertà nel Paese di origine: quale perversione dell’animo umano ci impedisce di riconoscere un beneficio così ovvio?». Su quest’ultimo aspetto è illuminate l’intervento che il vescovo ausiliare di Roma, mons. Guseppe Marciante, ha svolto recentemente alla presentazione dell’XI rapporto dell’Osservatorio Romano sulle Migrazioni (il testo della relazione è pubblicato su www.dossierimmigrazione.it).
L’autore di questo articolo è Franco Pittau, esperto di migrazioni, ideatore e coordinatore del Dossier Statistico Immigrazione, presidente onorario del Centro Studi e Ricerche IDOS (info: www.dossierimmigrazione.it).
* Illustrazione di Mauro Biani, tratta dal libro Tracce migranti. Vignette clandestine e grafica antirazzista (Altrinformazione, 2015)
Leggi la presentazione di Adista alla pubblicazione da cui questo articolo è tratto
Da questo link è possibile scaricare l’intero numero in formato pdf