1.«L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono». Così andava dicendo nelle strade e nei palazzi di Atene, intorno al V secolo a.C., Protagora, pensatore greco passato alla storia per la sua abilità nell’abbinare l’amore per la dialettica ai piaceri del denaro (fu il primo a vendere il proprio insegnamento). Ancora si sta discutendo su cosa intendesse bene il filosofo di Abdera con questa frase, comunque sia quel che è certo è che tutto il mondo naturale viene compreso a partire dall’essere umano. Unità di misura in verità un po’ strana: prima di misurare l’altro a partire da sé sarebbe stato opportuno definire l’unità di misura in questione – l’essere umano – portando a compimento quel “conosci te stesso” che campeggiava all’ingresso del tempio di Apollo, a Delfi, sempre in terra greca. Come pretendere di misurare ogni cosa a partire da sé, se poi non si vuole sondare quel sé? Dove ha inizio e dove termina? Il fatto che il sé dell’umano languisca per lo più allo stato di “terra incognita” – a parte qualche timida esplorazione (dalle pratiche meditative e contemplative alle più recenti psicologie del profondo) rispetto all’esplorazione e alla predazione del mondo esterno – ne ha causato nel corso del tempo uno sviluppo ipertrofico, debordante, finanche patologico. Se si fosse osato percorrere davvero tale esplorazione si sarebbe scoperta l’impossibilità radicale di ergersi a unità di misura.
Secondo le scienze del linguaggio (e qui ci riferiamo principalmente ai lavori di Benveniste), la nozione di misura è resa dalla radice indoeuropea “med-” che sta alla base di un ampio spettro semantico, con espressioni che significano pensare, riflettere, meditare, curare e, appunto, misurare. Ma anche la parola sanscrita maya (che vuol dire illusione) è imparentata con la medesima radice. Vale a dire: quando qualcosa viene posto come misura e identificata con l’essenza stessa della realtà, disconoscendo così ogni interdipendenza, la fitta rete nella quale ogni cosa sostiene ed è sostenuta da tutte le altre, allora, proprio allora, la misura si reifica e diviene illusoria (più o meno a questa conclusione giunse il fisico D. Bohm riflettendo sulla nozione di misura tra Oriente e Occidente). E le illusioni, scambiate per realtà, possono giocare pessimi scherzi.
2. Se Protagora di Abdera predicava ciò su base agnostiche, non avvertendo la necessità di scomodare gli dei, qualche secolo prima nel Vicino Oriente, neanche tanto lontani dalle coste greche, una narrazione sotto certi aspetti simile si premurava di chiamare Dio a sostegno di una simile affermazione; quest’ultimo invitava senza mezzi termini l’essere umano a soggiogare e dominare ogni altra forma vivente in quanto al servizio dell’umano. Ci riferiamo, lo si sarà inteso, ai primi capitoli di Genesi.
Nella narrazione biblica l’antropocentrismo viene ad assumere tratti teomorfi, così come specularmente il teocentrismo presenta valenze antropomorfe. Un elemento sostiene e giustifica l’altro: da un lato l’essere umano è posto al centro dell’universo in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio; dall’altro Dio stesso presenta caratteri marcatamente umani (gioisce, si adira, si commuove ecc.), confermando in questo modo la prossimità dell’essere umano a Dio.
Anche qui, come nel discorso di Protagora dietro la pretesa superiorità assegnanta all’umano, assistiamo a un taglio, una scissione radicale, ontologica: l’essere umano si separa dalla natura fuori di sé (il mondo animale, vegetale e minerale), separandosi al contempo dalla natura dentro di sé (la dimensione corporea, emotiva, con l’insieme delle sensazioni, odori, umori, sapori di cui si fa esperienza nella vita). Ciò che ne vien fuori alla fine è una condizione di solitudine altrettanto radicale e questo è il prezzo pagato per voler essere unità di misura dell’intera realtà.
Il lungo percorso che ci ha condotti dal mondo antico alla modernità e alla postmodernità ha visto coinvolti, su questa lunga strada, diversi soggetti (il Medioevo, l’Umanesimo, il Rinascimento, la rivoluzione scientifica, l’Illuminismo, la rivoluzione industriale ecc.), i quali, pur nelle rotture che hanno prodotto tra un passaggio e l’altro, non hanno mai messo in discussione quel rapporto tra essere umano e il resto del cosmo, proveniente da quelle visioni iniziali considerate poco sopra. Anzi, semmai hanno drammaticamente approfondito tale separazione.
3. Tornando a Genesi e al rapporto tra Dio e la sua creatura: se una delle prime cose che Dio dice rivolgendosi all’essere umano (un essere concepito, lo ripetiamo, da Dio a propria immagine e somiglianza) è quella di dominare e soggiogare, è lecito il sospetto che ci troviamo in presenza di un Dio imperatore, dominatore e soggiogatore per eccellenza. Sarebbe bene interrogarsi in merito a questa immagine divina e agli esiti a cui conduce.
Qui va considerato da vicino il modello di Dio di riferimento. Tale espressione – modello di Dio – è stata coniata negli anni Ottanta del secolo passato dalla teologa statunitense Sallie McFague per sottolineare la componente creativa, interpretativa e costruttiva dell’esistenza umana riguardante le differenti visioni del mondo, incluse le visioni religiose. Tale prospettiva conduce a sostituire una lettura letterale, unilaterale, in conclusione assolutista e fondamentalista, con un’altra di tipo metaforico. Il linguaggio e gli enunciati che elaboriamo con esso sono costruzione umana, quindi anche il linguaggio su Dio (la teologia) è costruzione umana. In altre parole esistono solo versioni, ipotesi, metafore o modelli di Dio; da qui non si può uscire.
Scrive a questo proposito Sallie McFague: «Io non so chi è Dio, ma trovo certi modelli migliori di altri per costruire un’immagine di Dio che sia commensurata alla mia fiducia in un Dio che sta dalla parte della vita». Tra i modelli di Dio che McFague propone ce n’è uno che ribalta ogni presupposto antropocentrico: quello del mondo come corpo di Dio. Alla base di questo modello vi è una prospettiva olistica che riconosce la dimensione relazionale e interdipendente. Citiamo ancora McFague: «Noi “non siamo nostri”: apparteniamo, dalle cellule del nostro corpo fino alle più belle creazioni della nostra mente, a un cosmo complesso, che cambia continuamente. L’ecosistema di cui siamo parte, le rocce e l’acqua, l’atmosfera e il suolo, le piante, gli animali e gli esseri umani, interagiscono in maniera dinamica, sostenendosi a vicenda, rendendo indifendibile qualsiasi discorso di individualismo atomistico».
In questa prospettiva viene a cadere quella serie di dicotomie che ha lacerato il tessuto della vita, a cominciare dalla divisione spirito/corpo. Esiste solo un continuum, del quale stentiamo a percepire i confini, lungo il quale la vita intera scorre: «la materia non è una sostanza inanimata, ma pulsazioni di energia, sostanzialmente in continuità con lo spirito. Amare i corpi significa allora amare non ciò che si oppone allo spirito, ma ciò che è uno con esso». Amare i corpi, i propri, così come quelli dei nostri simili insieme a quelli degli altri animali, dei vegetali, dei minerali, fino a poter guardare e toccare il corpo di tutto il cosmo, considerandoci spiriti incarnati nel più grande corpo del mondo o corpi ispirati da quel soffio che anima e vivifica ogni cosa. Tutto questo può dare forma a ciò che McFague ha definito nei termini di un “sacramentalismo rinato”, vale a dire la percezione del divino come visibile, presente, tangibilmente presente nel nostro mondo, a cominciare dalla vita quotidiana. L’unità di misura adottata sarà semplicemente la qualità delle relazioni che sapremo realizzare fra tutti i viventi.
Allora, partendo da questo cambio di prospettiva potremo finalmente tornare a raccontare le nostre storie e le nostre vite, perché abbiamo tanto bisogno di narrare e di ascoltare, perché è importante lasciare un segno del proprio passaggio, così come è bello stare a sentire qualcuno che decide di aprire il suo cuore e raccontare. Saranno storie differenti da quelle a cui siamo stati abituati, non più riportate in maniera autocompiacente e narcisistica, ponendoci sempre al centro di ogni avvenimento, ma seguendo appunto modelli di interdipendenza. Ad esempio, ci possono orientare le parole con cui iniziava il racconto della sua vita Alce Nero, vecchio capo sioux. Importa qui l’angolatura e la messa a fuoco del suo discorso: «Amico, ti racconterò la storia della mia vita, come tu desideri; e se fosse soltanto la storia della mia vita credo che non la racconterei, perché che cosa è un uomo per dare importanza ai suoi inverni, anche quando sono già così numerosi da fargli piegare il capo come una pesante nevicata? Tanti altri uomini hanno vissuto e vivranno la stessa storia, per diventare erba sui colli. È la storia di tutta la vita che è santa e buona da raccontare, e di noi bipedi che la condividiamo con i quadrupedi e gli alati dell’aria e tutte le cose verdi; perché sono tutti figli di una stessa madre e il loro padre è un unico spirito”.
L’autore di questo articolo è Federico Battistutta, ricercatore indipendente nel campo del religioso contemporaneo. Battitstutta coordina la comunità di ricerca “libero spirito” (www.liberospirito.org). Tra le sue pubblicazioni, “No man’s land. Elogio e critica del religioso contemporaneo” (2012) e “Storie dell’Eden. Prospettive di ecoteologia” (2015).
Tutte le immagini di questo numero speciale riproducono murales e opere di Maximino Cerezo Barredo
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