La domenica quando predico salgo sul pulpito e di fronte a me, alla mia sinistra, su una delle panche, verso il centro della chiesa, vedo il “Posto occupato”. Un foulard rosso, un paio di scarpe rosse, una borsa rossa che ricordano a me e alle persone che con me si riuniscono per il culto che quel posto potrebbe essere occupato da una delle tante donne uccise ogni anno a causa della violenza imposta per lo più da mano, presunta, amica: compagno, marito, zio, padre, collega. Bruciate, accoltellate, stuprate, picchiate, buttate nei rifiuti, è quello che succede a donne italiane e straniere, nel nostro bel Paese. Ragazze, madri, nonne, casalinghe, lavoratrici i cui nomi vengono raccolti, anno dopo anno, da associazioni di donne che li registrano per non dimenticare quell’antico peccato di genere che invece di scomparire tende a diventare ogni anno più manifesto.
Peccato di genere
Sì, si tratta di peccato di genere, non ha un altro nome. È quel peccato tutto maschile che assoggetta e uccide volontà, genio, corpo femminile lasciando alle proprie spalle un mondo in cui nascere donna significa vivere guardandosi le spalle, coabitando con la paura. Anche quando le donne riescono a costruirsi un’esistenza da poter vivere con sovranità e agio, dietro l’angolo può esserci l’orrore e dentro casa il mostro. E ciò continua ad accadere in maniera indipendente dalla loro volontà.
Il peccato di genere di cui parliamo ha dato origine al patriarcato che come sappiamo usa strumenti tanto crudeli quanto poco raffinati per sottomettere le donne. Tra quelli più cruenti lo stupro, il fondamentale strumento di forza contro le donne, il principale agente della volontà maschile sulla vita delle donne che può trasformarsi in un vero e proprio ginocidio che ha come scopo fondamentale quello della distruzione corporale e spirituale delle donne.
Alcuni esempi ci sono storicamente prossimi. Pensiamo a quanto è avvenuto in Bosnia-Erzegovina (1992-1995) dove attraverso la violenza sessuale l’etnia serba ha cercato di distruggere quella musulmana, colpendo le donne e gettando le loro famiglie nella disperazione. Lo stupro, per dirla con le parole della filosofa e teologa statunitense Mary Daly, porta le donne a perdere la capacità di nominare la realtà, a diventare passive, ad abitare in quella diaspora dove accade l’addomesticamento del genio femminista e l’impedimento della ri-membranza, quel legame di sostegno reciproco che le lega alle loro madri, fisiche o simboliche che siano.
La violenza ha anche a che vedere con i fondamentalismi religiosi presenti in tutte le confessioni che alle donne vietano uno specchio trascendente nel quale riflettersi. Può sembrare assurdo ma è un fatto, attuale ancora oggi, che tutte le tradizioni religiose conservino un sapore patriarcale che si nutre del mancato amore e riconoscimento delle donne e degli altri soggetti che non si identificano nei maschi eterosessuali. È ancora lungo il cammino che prevede che nell’amore di Dio possano essere tutte e tutti inclusi.
Buone pratiche
Ciononostante, e per fortuna, le nostre Chiese protestanti hanno finalmente rotto, da qualche anno, quel silenzio omertoso che da sempre circola intorno alle violenze di genere. Negli ultimi Sinodi delle Chiese valdesi e metodiste, che rappresentano nella nostra tradizione i luoghi collettivi di massima autorità e decisione, sono accadute alcune cose davvero importanti relativamente a tale questione. Si è riconosciuto che nessuno, neanche i membri di Chiesa, né tanto meno le famiglie cristiane, sono del tutto immuni alla violenza domestica. Si è chiesto e si continua a chiedere a tutta la Chiesa, ad ogni suo livello, di impegnarsi non solo per contrastare la violenza di genere ma anche per creare una maschilità meno violenta. Sono stati lanciati progetti dedicati e offerti alle scuole superiori volti a sensibilizzare le ragazze e i ragazzi sulle forme distruttive e pericolose che le relazioni possono assumere. Sono stati organizzati corsi di formazione nei quali le pastore e le diacone, che lavorano nelle chiese, si sono attrezzate, in cooperazione con i Centri antiviolenza, per sostenere le donne che riescono a denunciare l’abuso familiare e per vigilare su quelle situazioni, numerose, che sono al limite della violenza.
Abbiamo naturalmente coinvolto gli uomini in questo lavoro, non solo nei dibattiti ma anche in progetti più complessi. Nella programmazione dei campi studio del Centro ecumenico di Agape per molto tempo hanno avuto luogo i “Week-end uomini”. Occasioni queste, tutte al maschile, nelle quali i partecipanti si sono interrogati sulla propria maschilità e sulla consapevolezza della violenza di cui erano portatori a volte inconsapevoli. Hanno ragionato sul prendersi carico delle proprie figlie e figli, compagne, compagni, in modo nuovo, senza ricadere nel desiderio di dominio e controllo che spesso dà origine a relazioni squilibrate. Ma hanno anche dedicato del tempo a inventare un nuovo linguaggio capace di contenere e descrivere i nuovi modelli di maschilità che faticano ad emergere ma dei quali c’è assoluto bisogno.
Sempre ad Agape, nel “Campo politico donne”, che ha superato i 40 anni di esistenza, le donne hanno lavorato e continuano, sapientemente, a lavorare sulle questioni di genere e sulle narrazioni dominanti. Quelle narrazioni che ancora oggi non riconoscono come soggetti non solo le donne, ma neppure quelle persone ritenute abiette: gay, lesbiche, transgender e tutti quei soggetti resi invisibili da narrazioni diventate universali, opera di uomini che hanno prodotto il pensiero all’origine di quella civiltà etero normata che è ancora attiva ai nostri giorni.
Per un linguaggio rinnovato
È stata proprio l’elaborazione delle donne, condotta ad Agape ma anche dentro le nostre comunità, che a partire dalla fine degli ’80 ha reso le nostre Chiese attente all’uso del linguaggio inclusivo come risposta a quello conosciuto come il neutro universale. Il sapere, in ogni campo, veniva letto e rivendicato come neutro e quindi universale: non aveva rilevanza se a scrivere fossero quasi sempre gli uomini e raramente una donna perché entrambi erano compresi nella generalità umana. La storia, il punto di partenza, i pregiudizi di chi parlava o scriveva sembravano essere ininfluenti anche se in realtà spesso normavano il corpo e il sapere delle donne. Per questo, le donne protestanti, che hanno lavorato a lungo con il femminismo italiano ma anche in comunione con le teologhe americane ed europee, hanno denunciato la falsa neutralità del linguaggio ritenendola frutto di un’astrazione realizzata dall’essere umano maschile che aveva come referente solo se stesso.
La violenza passa infatti anche da qui, dal linguaggio, perché le parole possono dare la vita, costruire un’identità, far diventare qualcuna o qualcuno soggetto della propria storia e parte attiva del mondo. E possono anche, al contrario, uccidere, distruggere realtà, estromettere dalla storia corpi e pensieri, condannare al silenzio e rinchiudere le persone nella sfera dell’irrilevante. Per questa ragione, ormai da tempo, quegli ordini del giorno che servono per orientare l’impegno e il lavoro delle comunità locali, che i Sinodi annualmente inviano alle chiese, tengono conto del fatto che il mondo è popolato da più soggetti e che il genere ha che fare con qualcosa di complesso e sempre in divenire.
Dal 1993, momento in cui la Chiesa valdese ha deciso di avvalersi della norma di legge che consente alle confessioni religiose, riconosciute dallo Stato, di avvalersi della riscossione dell’8 per mille dell’Irpef, una parte consistente dei fondi ricevuti è stata investita, in Italia o all’estero, in progetti di sostegno alle donne e di prevenzione. Ogni anno vengono destinati finanziamenti a progetti dedicati alle donne: dall’ampliamento delle biblioteche nelle carceri femminili agli interventi di sensibilizzazione sulla violenza di genere, dall’accoglienza per le vittime di violenza al potenziamento delle reti di associazionismo femminile, dall’aiuto offerto alle donne schiave della tratta al sostegno alla nascita di piccole imprese di lavoro femminili.
Ogni buona pratica che le Chiese hanno il potere di creare per chiamare alla vita le donne, ma anche ogni altro soggetto che popola questa terra, parte dalla consapevolezza che tutte e tutti siamo stati creati a immagine di Dio e da Dio desiderate/i e amate/i. Basterebbe questa piccola grande verità a cambiare il mondo e a rendere ogni Chiesa un luogo inclusivo e accogliente.
L’autrice di questo articolo è Daniela Di Carlo, pastora nella chiesa valdese di Milano. Ha diretto il Centro Ecumenico di Agape e si occupa di teologie femministe e di genere. Ha partecipato alle opere collettive La Parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi (2007); Un vulcano nel vulcano. Mary Daly e gli spostamenti della teologia a cura di Letizia Tomassone (2012).
* Illustrazione di Stefania Anarkikka Spanò
Leggi la presentazione di Adista alla pubblicazione da cui questo articolo è tratto
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