In un attimo siamo diventati la più implacabile macchina di distruzione del pianeta: condensando tutta la storia dell’universo in un unico secolo, se la Terra nasce nell’anno 70, la vita tre anni dopo, i mammiferi a metà dell’anno 98 e l’homo sapiens 12 ore fa, è solo negli ultimi 12 secondi che il ritmo dello sfruttamento e della devastazione ecologica è diventato insostenibile, rischiando di azzerare centinaia di milioni di anni di percorso evolutivo. Un intervento così accelerato da dare vita, secondo gli scienziati, addirittura a una nuova era geologica, l’Antropocene (termine divulgato dal premio Nobel per la chimica atmosferica Paul J. Crutzen proprio per indicare l’impatto senza precedenti dell’azione umana sull’ambiente terrestre), traducendosi in un sempre più drammatico stravolgimento degli equilibri naturali. Si tratta, ci dicono, dell’avvio della sesta estinzione di massa delle specie viventi, diversa da tutte le altre che l’hanno preceduta per il fatto che a provocarla è appena una specie, l’homo che immeritatamente viene chiamato sapiens. E nulla indica che saremo capaci di fermarci: se nel 1961 utilizzavamo solo il 63% del pianeta per far fronte alle nostre esigenze, nel 1975 eravamo già passati al 97%, per sforare il nostro budget naturale appena cinque anni più tardi, con il 100,6%. E oggi il nostro conto è così in rosso che ci vorrebbero 1,6 pianeti per soddisfare la domanda dell’umanità.
Procediamo così, beatamente inconsapevoli, verso l’abisso, ignorando l’elementare verità che la Terra, come ci ricorda l’ecoteologo della Liberazione Leonardo Boff, è come un aereo con alimenti, acqua e combustibile limitati, in cui l’1% viaggia comodamente in prima classe e tutti gli altri in classe economica o addirittura nel freddo mortale della stiva. Prima o poi, avverte Boff, le risorse si esauriranno e l’aereo precipiterà, insieme ai passeggeri di tutte le classi.
Certo, i proclami, le grida di allarme, le dichiarazioni altisonanti della classe politica mondiale – tanto più alla vigilia della 21ª Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop 21) – si susseguono senza sosta. Ma restano sostanzialmente sulla carta. Basti pensare alle recenti dichiarazioni di Barack Obama sui rischi legati al riscaldamento globale («Sono convinto che nessun’altra sfida rappresenti una maggiore minaccia al futuro del pianeta», ha detto in occasione della presentazione della sua iniziativa di riduzione delle emissioni nel settore energetico), subito seguite dall’autorizzazione alle trivellazioni nell’Artico. È quella «biforcazione della realtà» di cui parlano Stefan Aykut e Amy Dahan nel loro libro Gouverner le climat? Vingt ans de négociations internationales, sottolineando come, da un lato, si voglia trasmettere l’immagine rassicurante di una comunità internazionale impegnata a collaborare per far fronte al cambiamento climatico e dall’altro si continui come se nulla fosse a percorrere la strada dell’estrazione dei combustibili fossili e dello sfruttamento selvaggio delle risorse naturali. Con la conseguenza che, se nel 2005, l’anno dell’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, le emissioni di anidride carbonica erano pari a 29 miliardi di tonnellate, nel 2013, anziché ridursi, erano già salite a 37 miliardi di tonnellate.
Ed è per tale motivo che, giusto alla vigilia della Cop 21, abbiamo voluto dedicare alla problematica ecologica questo numero speciale, il primo di una serie di numeri sui diritti incompiuti promossa dalla nostra associazione, Officina Adista, e finanziata con il contributo dell’8 per mille della Chiesa valdese (“Periferia Italia: i 5 passi di un cammino da intraprendere per una democrazia inclusiva”): è proprio il diritto a un pianeta abitabile, infatti, quello che rende possibile tutti gli altri. Perché solo di questa Terra disponiamo, non abbiamo nessun piano B.
Ed è proprio questo il tema dell’intervento di Leonardo Boff, il quale si sofferma sulle attuali minacce alla Madre Terra, ma sottolinea anche il lento emergere di una coscienza collettiva rispetto alla necessità di «provvedere alla casa comune, rendendola abitabile per tutti, conservandola nella sua generosità e preservandola nella sua integrità e nel suo splendore». A un altro teologo della Liberazione, Marcelo Barros, abbiamo invece chiesto un intervento sul ruolo delle religioni di fronte alla crisi ecologica, quelle religioni che sono state parte del problema e che, mai come oggi, possono essere parte della soluzione. Non poteva mancare la prospettiva dell’ecoteologia femminista, in ascolto – come ci spiega Cristina Mattiello – di quella voce, «a lungo costretta al silenzio dalla voce maschile», che è «altra dalle innumerevoli voci di donne altrettanto costrette al silenzio nei secoli, ma che tutte le accoglie, le comprende, e in qualche modo le origina»: la voce di Gaia, la quale ci chiama alla comunione con tutte le creature. È invece uno dei più importanti giuristi italiani, Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, a ribadire, attraverso la sua lettura della Laudato si’ di papa Francesco, la grande verità dell’«appartenenza del territorio al Popolo a titolo di sovranità» e il dato indiscutibile secondo cui, in base alla nostra Costituzione, «la proprietà privata non ha più tutela giuridica se non persegue la funzione sociale». Conclude il numero l’intervento di Domenico Finiguerra, cofondatore del Forum Salviamo il Paesaggio, un inno alla bellezza dell’Italia e un grido di dolore per le ferite inferte sistematicamente al nostro territorio. (Claudia Fanti)
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* Foto di Giampaolo Petrucci